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Nicodemo

"C r i s t o   M a e s t r o"... i l  S i t o
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v. 1
Nicodemo è un fariseo, membro del sinedrio, dottore della Legge, maestro in Israele. In una lettura tipologica rappresenta tutti coloro che ostacolano l’opera della grazia a causa della loro cultura, della eccessiva fiducia nel loro pensiero, talvolta persino nella propria anzianità di cammino di fede. La convinzione di avere raggiunto dei risultati nella vita cristiana è uno degli ostacoli più grandi al proprio progresso nella fede. Quando nel nostro combattimento spirituale abbiamo vinto Satana, egli è solito prendersi la rivincita facendoci pensare che abbiamo ottenuto un bel risultato. In questo modo veniamo letteralmente paralizzati. Nicodemo è il simbolo di questa verità.
v. 2
L’evangelista sottolinea che egli va da Gesù di notte. La notte è segno della resistenza a lasciarsi illuminare da Cristo; il prologo aveva già anticipato il mistero della tenebra che non riceve la luce venuta nel mondo. Nicodemo si muove nella dimensione della tenebra, come tutti coloro che appartengono al Tempio o al sinedrio, i quali resistono alla luce e la combattono. L’ostacolo maggiore che impedisce loro di ricevere la luce di Cristo è l’eccessiva sicurezza nella propria santità. Inoltre, Nicodemo rappresenta anche il mondo della Legge mosaica, che può dare all’uomo il senso del peccato, ma non può introdurre nel Regno di Dio. Nel Regno di Dio si entra per una energia di rinascita proveniente dall’alto. Proprio questo Nicodemo non capisce.Dall’altro lato, Nicodemo, insieme a quelli del sinedrio, riconosce che Gesù “compie dei segni” che nessuno può fare se Dio non è con lui. Tuttavia questo non basta a cambiare il loro cuore. Dio non nega a nessuno “i segni” del proprio passaggio. Occorre allora rimuovere in noi ciò che ci impedisce di essere guariti alla vista di questi segni. Anche nella moltiplicazione dei pani c’è una manifestazione della gloria di Dio nei suoi “segni”, ma anche qui la vista dei segni non produce la guarigione del cuore: “In verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (Gv 6,26). In questo caso sono le aspettative umane che impediscono la guarigione della folla che ha mangiato i pani: volevano farlo re (Gv 6,15). Nel caso del sinedrio l’ostacolo che impedisce la guarigione è la convinzione di sapere troppo bene ciò che riguarda Dio e il suo disegno di salvezza, unita alla eccessiva certezza di essere santi. Questa disposizione d’animo porta persino ad assumere verso Cristo un atteggiamento irrispettoso: Nicodemo risponde con ironia alla dottrina della rinascita, perché suona assurda alla sua logica, che lui considera totalmente illuminata: “Come può un uomo rinascere quando è vecchio?”. Per questo i segni del Messia sono sotto i suoi occhi, ma non sono salvifici per lui.
v. 3
Occorre soffermarsi sull’insegnamento di Gesù a proposito della rinascita: “Se uno non rinasce dall’alto non può vedere il Regno di Dio”. Diciamo innanzitutto che la traduzione in lingua italiana dice meno dell’originale greco. Dove la traduzione italiana dice “dall’alto”, in greco c’è un termine che significa contemporaneamente “dall’alto” e “di nuovo”. La parola greca è ànothen. La traduzione più completa sarebbe: “Se uno non rinasce di nuovo e dall’alto…”. Con l’immagine del nascere “di nuovo” il Maestro intende dire che il Regno di Dio, pur essendo una realtà comunitaria, è strettamente legato a un mutamento personale, a una presa di distanza radicale dal proprio passato. In sostanza, il rinnegamento di sé che deve essere un atteggiamento permanente come è permanente la necessità della conversione. Con l’immagine del nascere “dall’alto”, Cristo intende dire che la Legge di Mosè non è in grado di formare l’uomo al Regno di Dio. Occorre il dono di una vita nuova che scende dall’alto e che trasforma la persona nel suo intimo. Anche i sinottici sono in questa linea: allo scriba che cita i comandamenti più importanti della Legge mosaica, Gesù risponde: “Tu non sei lontano dal Regno di Dio” (Mc 12,34). “Non sei lontano”, dunque nei pressi del Regno ma non dentro di esso. La Legge mosaica conduce dunque “nei pressi” del Regno. Per entrare nel Regno bisogna accogliere la vita nuova che viene dall’alto. Non solo non ci si entra senza una rinascita personale, ma non se ne può neppure avere idea: “… non può vedere il Regno di Dio”.
v. 4
Nella risposta di Nicodemo, si nota innanzitutto il fatto che egli ha capito solo a metà l’insegnamento di Gesù: il Maestro parlava di un rinascere “dall’alto-di nuovo”, mentre Nicodemo afferra solo l’idea della seconda nascita, tralasciando quella della nascita “dall’alto”. Ci troviamo dinanzi a un appello implicito ad accogliere l’insegnamento di Gesù nella sua integrità, senza tralasciare ciò che eventualmente ci suonasse male. Nicodemo ascolta Cristo avendo posto un filtro tra sé e il Maestro. Egli coglie l’insegnamento in modo parziale e per questo gli sembra assurda l’idea di nascere di nuovo, non avendo capito che questa seconda nascita è “dall’alto”, cioè nella potenza dello Spirito. La sua non comprensione del messaggio di Cristo, lo porta a essere ironico e irrispettoso verso il Maestro: “Come può un uomo nascere quando è vecchio?”. Inoltre, nell’illusione di sapere già tutto sull’agire di Dio, Nicodemo non si accorge di stare negando a Dio la possibilità di intervenire nella storia con un nuovo gesto creatore.
v. 5
Gesù sa bene che Nicodemo lo ha capito a metà, e per questo ripete lo stesso insegnamento sostituendo la parola fraintesa da Nicodemo con l’espressione “acqua e Spirito”. Prima aveva detto: “Se uno non nasce ànothen (di nuovo-dall’alto)…”; adesso dice: “Se uno non nasce dall’acqua e dallo Spirito…”. Il Maestro vuole precisare ciò che sarà totalmente chiaro solo sul Golgota; le parole che Egli dice a Nicodemo anticipano in certo senso la scena dell’acqua e del sangue che fluiscono dal costato aperto del Cristo crocifisso. La rinascita del cristiano avviene dunque “dall’alto” nel senso che ha origine in Colui che è elevato in alto sulla croce (cfr. 3,14). Dal suo costato aperto si sprigiona la potenza dello Spirito che opererà nei sacramenti della Chiesa, e in primo luogo nel battesimo. In pari tempo, Cristo intende dire pure che solo dopo l’effusione dello Spirito, l’uomo può cominciare a vivere in pienezza, perché solo allora la creazione dell’uomo è giunta al suo compimento. Gesù stesso è ormai il solo luogo dell’incontro autentico con il Padre, né il Tempio né la Legge mosaica possono più avere alcun ruolo centrale.
vv. 6-7
La carne e lo Spirito sono due principi vitali. Ciascuno dei due trasmette la sua vita. La carne rappresenta la condizione umana non ancora perfezionata dallo Spirito; lo Spirito è invece la vita nuova di chi è rinato dal costato aperto del Messia. Chi è nato dallo Spirito è spirito, ossia è amore, vive ispirato dall’amore. Cristo offre in se stesso l’immagine piena di una vita umana ispirata dall’amore, ma contemporaneamente dona lo Spirito che ci mette in grado di vivere così. L’errore di Nicodemo è quello di pensare che Dio abbia finito di creare in quel lontano settimo giorno; Gesù esprime il suo aperto dissenso quando dice: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). L’opera della creazione dell’uomo non è affatto finita: sarà finita dopo l’effusione dello Spirito. Dall’altro lato, per l’uomo si aprono a questo punto due possibilità: o rinascere dall’alto per vivere una vita capace di replicare quella del Maestro, oppure rimanere nella sfera della carne e dell’invecchiamento del mondo.
v. 8
La parola greca usata per dire “spirito” significa contemporaneamente anche “vento”. Giovanni gioca su questo duplice livello di significato. Il vento-spirito è una forza che muove. Di esso si dice anche che ha una sua “voce”, un suo linguaggio. Analogamente al vento, lo Spirito di Dio è liberissimo, non conosce limitazioni, né confini, né regole prestabilite. E’ libero perché è Signore. L’insegnamento dell’Apostolo Paolo è esattamente identico: “Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Nella stessa maniera, chi nasce dallo Spirito non è mai vittima di ristrettezze mentali, e soprattutto non è più vincolato ai legami terrestri, quali possono essere le istituzioni, la stirpe, l’albero genealogico. La sua identità, come quella di Cristo, non può più essere ridotta all’orizzonte di questa terra. Chi è nato dallo Spirito, sa da dove viene e dove va.  Sa che la sua meta è la comunione col Padre.
vv. 9-12
Nicodemo continua a muoversi a disagio nella dottrina di Gesù. Ciò che gli impedisce di capire l’insegnamento così nuovo del Maestro è il suo attaccamento a una tradizione e a un sapere appreso da altri uomini. L’insegnamento di Gesù, e di tutti coloro che sono suoi discepoli, al contrario, non è tanto una dottrina o una tradizione appresa, bensì una testimonianza di ciò che si vive. Chi è nato dallo Spirito, prima vive e dopo insegna. La dottrina in tal modo scaturisce dalla vita. Per la mentalità di Nicodemo, maestro in Israele, l’ordine dei fattori è invece inverso: prima c’è la dottrina e poi c’è la vita. Questo è un elemento che separa nettamente le due teologie, quella farisaica e quella cristiana; fin dal prologo l’evangelista lo aveva annunciato: “La vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). Il termine “luce” era utilizzato dai rabbini per indicare la legge mosaica; e per essi questa “luce” era vita per gli uomini. L’insegnamento giovanneo capovolge questa prospettiva, dicendo che “la vita è la luce degli uomini”. Ancora una volta: prima c’è la vita e poi c’è la luce (dottrina). Gesù fa pure intendere a Nicodemo che questa prospettiva della rinascita dall’alto, in cui la vita è luce, non è estranea all’AT. I profeti Geremia ed Ezechiele avevano già annunciato una alleanza nuova e una legge scritta nel cuore. Il suo rimprovero lascia trasparire l’idea che Nicodemo, conoscitore dell’AT, dovrebbe avere gli strumenti per capire l’insegnamento di Gesù: “Tu sei maestro in Israele e non lo sai?” .
vv. 13-15
La menzione della ascensione allude alla vittoria definitiva del Cristo. La sfera celeste è per sua natura inaccessibile all’uomo, ma Colui che da essa proviene può indicare quale via si percorre per arrivarci: “nessuno sale al cielo se non Colui che scende dal cielo”. Nicodemo aveva ammesso che la missione di Gesù era divina, mentre Gesù sottolinea che non solo la sua missione ma anche la sua origine è divina altrettanto. L’obiettivo della missione del Messia appare dalle parole di Gesù come la comunicazione di una vita definitiva: “… affinché chiunque crede in Lui abbia la vita” (v. 15). E poiché ciò si verifica mediante l’innalzamento sulla croce, ne risulta che proprio quello è anche il momento della sua massima glorificazione. La croce per Gesù non sarà una condizione transitoria, ma sarà l’inizio di una effusione permanente di Amore e di Vita. La crocifissione per Cristo si concluderà solo alla fine del mondo. Il tempo presente è il tempo della misericordia, perché le sue piaghe sono ancora aperte e dalla ferita del costato si può ancora vedere il suo Cuore. Il parallelismo con l’asta innalzata da Mosè nel deserto chiarisce il senso della croce come sorgente di guarigione, e di una particolare guarigione che è quella del morso del serpente. Il simbolo del veleno del serpente non ha bisogno di commenti tanto è chiaro.
v. 16
Il discorso di Gesù risale però fino all’ultima radice della missione del Messia: “Dio ha tanto amato il mondo…”. E’ Dio che ha preso l’iniziativa e ha mandato suo Figlio. Cristo è il dono che Dio ha fatto al mondo; è la sintesi di tutti i doni. L’espressione usata da Gesù ricorda da vicino Gen 22,2, dove si parla del figlio “unico” immolato da Abramo. Ma ad Abramo Dio non ha chiesto ciò che invece ha chiesto a Se Stesso. Isacco era in sostanza solo una figura di Gesù, mentre Abramo e Isacco insieme rappresentano il dramma della Trinità che nella Passione di Cristo accoglie al suo interno la misteriosa lacerazione sopravvenuta nella sua indivisibile Natura: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Nella coscienza umana del Cristo, Colui che è eternamente Padre, in quell’istante è semplicemente Dio. Se questo è stato il prezzo della nostra salvezza, è impossibile che Dio possa minimamente compiacersi della rovina dell’uomo. La beatitudine dell’uomo deriva infatti dall’incomprensibile dolore di Dio.
vv 17-19
Così come l’amore di Dio è il movente dell’invio del Figlio, analogamente la missione del Figlio non è orientata alla condanna dell’umanità, bensì alla sua salvezza. Nessuno viene discriminato in seno a Israele, così come non c’è discriminazione tra Israele e gli altri popoli. Salvarsi significa, nel linguaggio cristiano, scampare alla morte definitiva. La missione di Cristo appare essenzialmente in questo orizzonte di vita. Tuttavia, la morte definitiva del singolo uomo rimane un’ipotesi drammaticamente possibile, visto che nessuno è “costretto” ad accettare la vita donata da Dio in Cristo e nello Spirito. Il v. 18 è fin troppo chiaro su questo punto: “chi crede in Lui non è condannato”; questo implica che la perdita della vita eterna è la conseguenza di avere liberamente rifiutato di aderire a Cristo. In sostanza, Cristo è il Salvatore dell’umanità, ma si trova ad essere anche il banco di prova per coloro che cercano di salvare se stessi, e che di conseguenza sono destinati a un inesorabile fallimento. Se dunque di condanna si deve parlare, occorre precisare che si tratta in realtà di un’autocondanna, derivante dalla superbia umana che non vuole riconoscersi  bisognosa di essere salvata. Nel momento in cui Dio offre il suo amore in Cristo, non ci sono più possibilità intermedie: o il sì dell’adesione o il no della autoesclusione. Chi aderisce al suo amore, di fatto, non è sottoposto al giudizio, perché il mandato di Cristo non è quello di giudicare; eppure, suo malgrado, e con una incomprensibile e divina sofferenza, Egli dovrà prendere atto di chi vuole uscire dalla vita che è in Lui. E nel rispetto assoluto della libertà umana, Egli non lo impedirà. L’offerta di questo amore che salva, ma che non impone la salvezza, si compie nel Figlio dell’uomo elevato in alto, ossia nella parola della croce, adombrata dall’asta di Mosè già citata. L’umanità nuova nascerà infatti dall’alto, ossia dalla croce. La vita è dunque localizzata in alto, sulla croce, che al tempo stesso è un segno visibile a tutti. Ancora più chiaramente circa la natura del giudizio, il v. 19 dice: “Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce”. Ritorna così il tema del prologo: la luce rifiutata dalle tenebre, ma qui le tenebre vengono identificate con quella parte di umanità che si oppone al Messia. In questo versetto non è possibile intendere l’appartenenza alle tenebre come un fatto legato alla predestinazione e perciò ineluttabile; l’evangelista usa intenzionalmente il verbo “preferire”, alludendo a una lucida e meditata opzione. La finale del v. 19 dà anche una spiegazione possibile alla scelta delle tenebre, dopo che la luce si è manifestata e offerta nell’amore: “perché le loro opere erano malvagie”. La scelta di restare nelle tenebre è allora la conseguenza di una impostazione maligna della propria vita, che non può sostenere il confronto con quella luce che smaschera tutte le macchinazioni che sono efficaci solo finché non vengono scoperte. La tenebra non viene preferita alla luce per il fatto che sembra migliore in se stessa, ma perché chi vive in forza della complicità dell’ombra, se si avvicina alla luce è costretto a reimpostare fin dalle radici la propria esistenza. E chi non è disposto a compiere questa fatica - che i vangeli Sinottici chiamano “conversione” - sceglie di restare nell’ombra che nasconde le sue magagne, e che quindi lo fa sentire al sicuro.
vv. 20 –21
Il v. 20 precisa infatti: “chiunque fa il male odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere”. Il senso è molto chiaro: non è scelta la tenebra in se stessa; è scelto soltanto il vantaggio derivante dalla sua complicità. Ma è un vantaggio ingannevole, in quanto esclude dal favore di Dio.Al contrario, chi ha impostato la sua vita in modo da non aver bisogno della complicità delle tenebre, è spontaneamente e dolcemente attirato dalla luce: “chi opera la verità, viene alla luce”. Notiamo qui anche una opposizione tipicamente giovannea: “chiunque fa il male… chi opera la verità”. Ci si sarebbe aspettati che il secondo termine fosse “chi opera il bene”. Per Giovanni, infatti, il termine che si oppone al “male”, non è il “bene” ma la verità. Tra l’altro, la verità riguarda l’operare e non il conoscere o il dire: “chi opera la verità”. Questo fa certamente saltare tutte le nostre categorie moderne, dove la verità “si dice” e il bene “si fa”. Per Giovanni la verità “si fa”. Ciò significa che “essere veri” conta di più che “dire il vero”. Si potrebbe conoscere il vero con esattezza e dire il vero con altrettanta esattezza, senza che ciò abbia alcuna influenza sulla propria vita. E’ la condizione dei farisei che si sono seduti sulla cattedra di Mosè: essi “dicono” il vero, ma non sono capaci di “essere veri” (cfr. Mt 23,1-3). Così molti si illudono di essere sinceri, solo perché dicono quello che pensano, ma non riflettono sul fatto che se la vita non è illuminata dalla grazia, anche il pensiero si oscura. E con esso la parola che pretende di essere “sincera”. Giovanni dice che la verità “si fa”, perché solo chi vive nella luce, parla parole di luce. Tutti gli altri, pur essendo sinceri, non fanno che comunicare il buio che hanno dentro
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